Ponte Morandi: cosa scriveranno i libri di storia nel 2050?

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Immaginare oggi, partendo da un presente confuso, come nel 2050 si racconterà la tragedia del Ponte Morandi può metterci nelle condizioni di osservare la quotidianità in una prospettiva temporale più ampia. Un’importante occasione – out of the box – per vedere, a ritroso, cosa potrebbe accadere intorno a noi nei prossimi anni. Un esercizio di futuro per costruire, sin da oggi, uno scenario desiderabile piuttosto che lasciare che uno distopico ci divori.

Probabilmente, citando Max Pezzali, gli storici del 2050 osserveranno che la tragedia fu vissuta come “un’altra notte da lupi nel Bronx” a cui, come spesso accadeva, sono seguite le riflessioni, i commenti, le critiche dei protagonisti del palcoscenico mediatico nel ruolo che, a seconda dei casi, la sceneggiatura politica-economico, di allora, attribuiva o negava. Ricorderanno che i mezzi di informazione,  con accenti più o meno forti, parlavano di sciacallaggio politico ma anche della necessità di superare rancori con slanci che sarebbero dovuti provenire da quella che veniva chiamata la società civile. Citeranno gli aiuti messi in campo dalle risorse più vitali della città e dell’Italia. Si soffermeranno sugli oltre100 kg di focaccia donati dai fornai agli angeli del soccorso e raccolti da un semplice cittadino; un gesto che, però, non fu visto come un importante seme di cambiamento messo a dimora da un’Italia che voleva scrivere un nuovo Rinascimento ma solo come una tra le tante piccole-grandi storie di generosità che da sempre avevano contribuito a contraddistinguere l’Italia.

E per quella miopia, scriveranno, nessuno vide nella tragedia del 14 agosto un campanello d’allarme. Evidenzieranno che l’Italia superò con dignità lo shock che ferì gravemente la reputazione dell’ingegneria italiana ma non percepì, in quella sciagura che causò 43 morti, una scintilla. Nessuno colse che il “raffreddore di Genova avrebbe fatto starnutire l’Italia” e pertanto preciseranno che, nel vivere la sciagura del Ponte crollato, nessuno si accorse che stava franando anche la terra che gli stava sotto e con essa l’Italia.

Il Paese non riuscì, passato il dolore del momento, a capire che la differenza fra Paesi di successo e Nazioni fallite non stava nella vivacità del dibattito che oppone forze politiche ma nella capacità di gestire le tre condizioni che governavano la nuova normalità economica – che alcuni continuavano a chiamare crisi – e cioè la complessità, l’incertezza e l’asimmetria decisionale. Uno Stato che iniziò così, inconsapevolmente e da allora, il suo lento ma inesorabile declino. Un processo irreversibile che lo portò a rinunciare, nel 2040, alla sua autonomia e a diventare una colonia dell’impero cinese.

Ma la domanda più intrigante che gli storici si porranno sarà: il destino dell’Italia, all’epoca del crollo, era inevitabilmente segnato? Dal crollo del Ponte Morandi non si poteva più tornare indietro o negli anni successivi si poteva ancora fare qualcosa?

Non troveranno, nel 2050, una risposta condivisa ma solo alcuni indizi di problematicità in cui molti Paesi, e fra questi l’Italia, si erano mossi affannosamente. Primo fra tutti il non voler vedere che la democrazia non rappresentava più un modello vincente di governo ma era ormai solo un esempio di degenerazione politica. Già la lettura di alcuni report dei primi anni 2000 poneva il dubbio sul termine democrazia che diceva sempre meno su come e quanto bene un Paese è amministrato; ma l’Italia, in particolare, non capì che la selezione naturale, ovvero la capacità di adeguarsi alla realtà che cambia, riguardava non solo le imprese ma anche le forme ottimali di Stato. Secondariamente avrebbe dovuto iniziare a sostituire la classe politica con una governance di tecnocrati capaci di decidere quando l’analisi dei dati lo richiede? Ma anche in questo caso non entrò nel merito ma prevalse la sola discussione sul rischio che i tecnocrati buoni sarebbero potuti diventar cattivi fermandosi, ancora una volta, alla ricerca del colpevole senza cercare la soluzione del problema. Infine, non fu adeguatamente sostenuto l’appello di alcuni insegnanti a rimboccarsi le maniche per salvare le menti dei ragazzi ma soprattutto i loro cuori per battere non solo l’analfabetismo funzionale ma anche quello emotivo.

Un attimo, siamo ancora nel 2018 e quindi, la risposta alla domanda degli storici del futuro è ancora tutta da scrivere perché il futuro non è ciò che ci succederà ma è in ciò che facciamo.

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