La casa del futuro presente

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La lettura delle dinamiche dell’invecchiamento della popolazione e delle fragilità dell’universo giovanile porta ad immaginare la casa come una “infrastruttura” intelligente e sociale. Casa, acrostico di Creatività, Attrattività, Sensibilità, Azienda, che integrerà le politiche di welfare con quelle dell’edilizia, del lavoro, della scuola, della sanità favorendone la contaminazione e realizzando i 17 obiettivi dell’Agenda ONU 2030.

La casa sarà una piattaforma di incontro dei bisogni di una società in trasformazione, un ambiente che avrà certamente un concentrato di tecnologie ma sarà soprattutto un ambiente dove i suoi “ospiti” condivideranno storie e si muoveranno in qualità di agenti del cambiamento e il cui risultato di CASA – RETE dipenderà da quanto saranno disposti a mettersi in gioco in un processo sempre più botton up e sempre meno top down.

Sarà una “casa Wikipedia” che trasformerà radicalmente il modo in cui viviamo e lavoriamo nelle città.

Sarà un “giardino” dal momento che si evolverà, si modificherà, si amplierà o si ridurrà sia nella struttura, in quanto componibile con moduli compatti, prefabbricati, di elevato comfort, sia nei contenuti con la partecipazione aperta di diversi soggetti selezionati-scelti (tra artisti, centri di ricerca, scuole, associazioni, piccole imprese, docenti, impiegati, operai, pensionati…) in una logica non di ISEE, o di altri parametri patrimoniali fissati da un bando comunale, ma sulla base di uno scopo, di una passione, di un interesse inseguendo un approccio allocentrico: ogni individuo-inquilino sarà solo un “puntino” della casa-rete che contribuirà a realizzare.

 

Intervista a Fabio Millevoi*, Direttore di Ance FVG per professione, storico dei giardini per passione e cantastorie per necessità, ha presentato di recente all’Università di Trento un project work riguardo la casa del 2040. Questa struttura innovativa, per le funzioni citate da Millevoi, rientra nella categoria di interventi altamente sostenibili che hanno l’obiettivo di salvaguardare l’ambiente, la società , il territorio e la comunità.

Quali caratteristiche e funzioni dovrà avere la casa del futuro?

È importante affrontare il tema della casa del futuro partendo dall’analisi di tre problematiche: il disagio abitativo, l’invecchiamento della popolazione e l’emergenza giovani. Tre ordini di criticità che ben contribuiscono a rappresentare la persistente difficile situazione italiana. Tre polaroid dalla cui lettura non possiamo prescindere nel momento in cui ci poniamo la domanda su come sarà la casa del 2040 o a cosa servirà. È vero che ovunque guardiamo incontriamo ostacoli ma può anche darsi che proprio dall’interconnessione delle tre polaroid di problemi, prima citati, che potrebbero nascere quelle condizioni che consentano da un lato, ad anziani con abitazioni di valore ma con un basso reddito e dall’altro, a giovani senza un lavoro, di incontrarsi in una strategia –  bottom up e non top down – che aiuti non solo ad invecchiare in casa ma anche a favorire la genitorialità, il lavoro, la creatività, la sostenibilità economica, sociale e ambientale in un continuo confronto-incontro dove non ci sono certezze ma solo possibilità. Case come  laboratori di esperienze dove rivendicare il diritto all’immaginazione ma dove, soprattutto, si farà breccia nel muro della solitudine.

La solitudine è stato un argomento centrale anche nelle prove dell’ultimo esame di maturità. Cosa potrebbe fare una struttura così importante come la casa per ridurre questa problematica?

Più che un argomento direi una malattia che aumenta del 14% la probabilità di morte prematura. Ci troviamo di fronte a un’epidemia che spaventa e preoccupa tutta l’Europa e arriva dal Giappone la notizia che la morte per solitudine colpisce 30 mila persone all’anno. Viviamo sempre più connessi ma sempre più soli e con l’aumento della speranza di vita sale pure la spesa destinata al welfare e, nel breve periodo, la gran parte dei costi assistenziali che si renderanno necessari non potranno più gravare sulle famiglie sempre più piccole, vecchie e povere. Oggi gli anziani sono un business ma non sarà così tra 20 anni. Gli attuali 50/60enni non potranno permettersi ne’ la badante ne’ una casa di riposo. Si apre così, all’orizzonte, una realistica discontinuità negativa: allargare le ipotesi normative del suicido assistito. Pertanto, potremmo anche immaginare uno scenario in cui la CASA potrebbe, almeno in parte, aiutare le persone anziane a rimanere indipendenti e attive il più a lungo possibile e permettere, nel contempo, ai giovani di sentirsi parte di un progetto comune per non vivere in solitudine le scelte da intraprendere. Un’ipotesi ragionata e alternativa allo scenario distopico prima illustrato che consentirebbe di trasformare un’abitazione in un link fra l’io e il mondo per dare gambe a una risposta abitativa sistemica: un luogo dove l’alleanza giovani-anziani sarà affrontata, i futuri dell’economia del benessere sperimentati, la life long learning vissuta. Una casa, quindi, non più come “edificio” ma come progetto di una “situazione”.

Cosa comporterà questo cambio di prospettiva?

Un’attenzione maggiore verso il processo produttivo rispetto al prodotto che diventerà un servizio. Pensiamo alla macchina che è già diventata un servizio di trasporto. Come osserva Kevin Kelly “tutto è flusso niente è finito”. Questo implica più che un semplice “le cose cambieranno” ma determinerà che i processi, motori del flusso, saranno più importanti dei prodotti e questo ci allontanerà da un mondo di nomi fissi indirizzandoci, al contrario, verso un mondo di verbi fluidi.

La casa non risulterà essere più un sostantivo ma un verbo: sarà condividere, collaborare, cooperare, imparare, formare, istruire, giocare e altro ancora. Un approccio che disegnerà un ambiente non più costruito unicamente sui volumi, sui metri quadri e sul numero delle stanze, quanto piuttosto sulla produzione di esperienze condivise, sulla creatività e sulla convivialità. Le forme di abitare collaborativo, oggi marginali e in molti casi ghettizzanti, riusciranno ad esprimere tutte le potenzialità di cui sono depositarie ma sarà abbandonato il mantra che il co-housing consente di vivere “un’arricchente esperienza di vita”. La casa, infrastruttura sociale, sarà una tecnologica di servizio che dovrà rispondere, come tutte le tecnologie, a due domande: funziona o non funziona ? Quanto costa? Funzionerà se sarà in grado di offrire soluzioni sanitarie di prevenzione personalizzate prendendosi cura della salute dei suoi inquilini. Il proprietario dell’immobile diventerà anche il proprietario di tutti i dati ivi contenuti compresi quelli relativi all’istruzione scolastica: informazioni che serviranno per assicurare un’efficace life long learning.

Sarà, inoltre, sempre meno rappresentativa di chi la progetta ma sempre più di chi la userà. Sarà un’azienda/albergo fertile, un ambiente poroso, componibile e flessibile a usi diversi dove troveremo qualcuno o qualche cosa che non sapevamo stessimo cercando. Il risultato dipenderà dall’operato di ciascuno dei suoi inquilini e da quanto saranno disposti a mettersi in gioco come agenti del cambiamento. Inquilini che si saranno selezionati o scelti non in una logica di reddito fissato da un bando ma sulla base di uno scopo che renderà sostenibile l’investimento immobiliare.

E il costruttore cosa farà?

Sarà il pilota della contaminazione. Un ibridatore, un giardiniere. Anziché mettere a dimora diverse specie arboree distribuirà, su una piattaforma digitale, semi di idee (e non di mq) che gli inquilini-costruttori in veste di prosumers sceglieranno innescando un meccanismo destinato a svilupparsi in maniera autonoma. Un aspetto non secondario soprattutto in un’economia in transito “dal possesso all’accesso” “dallo spent to have allo spent to use”, come il sociologo Jeremy Rifkin anni fa preannunciò e che pare si stia concretizzando nelle risposte dei mercati di oggi.

Che cosa sono i futures  studies?

Benché la riflessione sul futuro sia una costante della storia dell’uomo, solo negli ultimi trent’anni la storia umana ha prodotto ciò che oggi conosciamo con il nome di “futures studies”. Futuri che, come ricorda Eleonora Barbieri Marini, pioniera degli “studi di futuro”, sono sempre plurali perché se guardiamo al passato vediamo un serie di possibili cambiamenti che avrebbero potuto portare a possibili futuri tra loro differenti. Studi che necessitano sempre di un’analisi del recente passato qualunque sia l’argomento. Pensare a 20 anni, osserva Roberto Poli, prima cattedra Unesco in Sistemi anticipanti, è un esercizio per immaginare problemi e opportunità e, quindi, aiuta a prepararsi traducendo scenari di futuri possibili in strategie che consentono di costruire le condizioni per aumentare la varietà delle azioni da svolgere.

Quali sono invece i suoi progetti futuri?

Esercitarmi nella professione dell’archeologo del futuro per scoprire nel passato marginali segnali di discontinuità, semi di cambiamento non ancora germogliati, tendenze poco significative, aspetti che, oggi, in condizioni diverse, potrebbero essere utilizzati  per anticipare futuri possibili.

 

* Pubblicato su Civiltà di Cantiere. Città e territori, settembre 2018

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