Dove è finita l’innovazione?

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Questa riflessione sulle Istituzioni prende avvio dalle immagini recenti di questi mesi di emergenza sanitaria che si sovrappongono nella memoria dando vita a messaggi contrastanti.
Da un lato le immagini che richiamano alti valori in cui proiettarsi sentendosi uniti, a cui aggrapparsi sebbene distanti: la salita solitaria del presidente della repubblica all’Altare della Patria o la scia tricolore delle Frecce che uniscono idealmente l’Italia.
Dall’altro l’immagine dei conflitti di attribuzione fra stato e regioni, della paralisi del sistema scolastico e del collasso di quello giudiziario, travolto da crisi endemiche ma anche da episodi di malaffare come le vicende del CSM.

Quali sono allora le istituzioni in cui identificarsi e credere, a cui affidarsi, come cittadini?

Abbiamo ereditato articolazioni istituzionali, specialmente nelle diramazioni operative, che sono quelle con cui siamo a contatto di regola ogni giorno, vecchie di oltre un secolo.
In parte si tratta di sistemi disegnati e caratterizzati dall’esigenze di unificazione e da logiche di standardizzazione e nei cui confronti subiamo spesso i condizionamenti dell’autoritarismo con cui sono state ideate.

Sono ancora adeguate nella realtà interconnessa e caratterizzata da una complessità dinamica, in cui causa ed effetto non sono vicini nel tempo e nello spazio?
Oggi, interventi ovvi per il passato non producono i risultati attesi.
Vanno quindi adattate a questo elevato livello di incertezza: come fare?

Spesso assistiamo a lunghi e complessi percorsi di riforma che terminano – se lo fanno – in tempi così lunghi che non tanto l’esito risulta incongruo rispetto all’obiettivo originario, quanto risulta deformante anche il percorso stesso di approvazione delle misure.
In questo modo la fiducia in un potere auto-riformatore delle istituzioni si ridimensiona e fa perdere la fiducia nel processo stesso di innovazione.

Esempi possono essere tratti da questioni di principio vicine a ciascuno. Un’innovazione sentita da ampie parti puntava alla tutela della riservatezza: oggi abbiamo estese norme di legge e regolamentari con oggettive difficoltà interpretative per chi le deve applicare, bilanciandole con altre innovazioni, quelle sulle amministrazioni trasparenti, senza segreti per nessuno.
Abbiamo introdotto norme anticorruzione con un visibile conseguente lavoro burocratico fatto di tabelle, regole sommate a quelle già esistenti, che gravano sull’attività senza però garantire che la corruzione finirà grazie a procedimenti sempre più complicati.

L’innovazione era come pensata o si è persa nelle procedure?

Procedure che diventano fini a se stesse in una pubblica amministrazione passata dal rischio arbitrio all’incubo dei whistleblower, dell’accesso civico, della Corte dei Conti, del difensore civico o del pubblico ministero: questo non olia i meccanismi, ma li ingrippa. In una logica di estrema attenzione procedimentale di autotutela degli operatori che assorbe ogni energia e fa dimenticare l’obiettivo che sarebbe stato da raggiungere.

Siamo quindi di fronte a sistemi inadeguati o ipotesi di riforma imperfette?

La risposta credo debba partire dalla consapevolezza – che arriva da un principio basilare del pensiero sistemico – che è la stessa struttura a generare le regole del proprio funzionamento e che cambiare le strutture, e quindi istituzioni e organizzazioni, non è né semplice né veloce e che non potrà mai essere una leva strategica per la trasformazione incidere solo sulla loro struttura fisica.

Un sistema è costituito dai suoi elementi, dalle interconnessioni e dagli obiettivi ed è in modo sinergico su questi aspetti che diventa prioritario agire mettendo in campo anche risorse e approcci nuovi.
Se pensiamo a come funziona un’istituzione, un ente, finanche un ufficio, qualche ovvio detrattore potrebbe rispondere: non con la logica. Ma la battuta ha del vero: ogni istituzione umana funziona tramite le persone che ci lavorano dentro, chi dà ordini, chi li esegue, chi li boicotta, chi li ignora, chi dà ordini errati o non ne dà…

Ecco che le soluzioni per un futuro istituzionale migliore passano dalla bassa (o alta) manovalanza umana: è necessario focalizzare l’attenzione non sul come innovare, ma su chi dovrà farlo o permettere di farlo. Un nuovo umanesimo che raccolga le istanze e le ragioni di donne e uomini che lavorano nelle istituzioni, che in un corretto ambiente che limiti le difficoltà e i conflitti, gli obiettivi privati, ma anche i crescenti disagi – aumentati dai mesi di anomalia indotti dalle misure anti Covid – crei i presupposti per uno svolgersi sereno e corretto, scorrevole di servizi e procedure, in un’ottica di tolleranza e fiducia che superi il clima di sospetto su cui è impostato l’intero sistema istituzionale.

Primi passi in questa direzione?

La diffusione di conoscenze trasversali che favoriscano soluzioni sistemiche ai problemi mediante una progressiva scomposizione e astrazione degli stessi seppur nel quadro della sostenibilità globale, l’alfabetizzazione ai futuri possibili – come suggerisce AFI Associazione dei Futuristi italiani nel recente webinar “Pensare l’impensabile” – la promozione di visoni condivise che possano incentivare la cooperazione e lo sviluppo di intelligenza collettiva.
Il piano etico – prioritario – seguirà come conseguenza naturale del raggiunto empowerment.

Dove è finita l’innovazione?

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